lunedì 15 novembre 2021

Paolo Gabriel Boccacci, "Una storia non nuova. 29 poesie"

 


Boccacci, P. G., Una storia non nuova. 29 poesie, Bertoni Editore, Poesia Edizioni, Perugia, 2021, 60 p., brossura

Disponibile/ordinabile in tutte le librerie italiane, fisiche e digitali.

BIO

Paolo "Gabriel" Boccacci nasce il 29 giugno 1995 ad Assisi (PG). Si è diplomato in Scienze Umane presso il Liceo Sesto Properzio di Assisi, e, correntemente, frequenta la Facoltà di Lingue e Culture Straniere all'Università degli Studi di Perugia. Ha pubblicato diverse poesie in antologie di genere ("Impronte 14" e "I poeti contemporanei 199 - 7 autori") e ha partecipato a concorsi letterari risultando primo a livello regionale nell'ambito di "Poesia, che passione!", ediz. 2012-13.

SINOSSI

La presente raccolta, composta da 29 poesie, distribuite in tre parti suggellate da un Epilogo, nasce dall'esigenza dell'autore, e uomo, di raccogliere, secondo un legame concettuale - ergo, non solo temporale -, composizioni che abbiano a che fare con i turbamenti che, dal profondo di sé, lo tengono in bilico tra la voglia di vivere a pieno la vita, e la dolceamara tentazione per la caduta, per il fallimento.
     "Una storia non nuova" perché i contenuti e lo stile (o gli stili) non sono inediti, non sono che la riproposizione di un bagaglio che è secolare, e non ha a che fare esclusivamente con la poesia, ma anche, e soprattutto, con la musica, che è alla base della scrittura di queste liriche.
     Ventinove come le canzoni che vanno a comporre la produzione del bluesman Robert Johnson, uno dei più grandi autori e chitarristi del Novecento musicale. Vi è anche una certa autoironia, palese, voluta dall'autore, nell'alludere alle proprie "creazioni" come a un'eredità sulla quale può intervenire poco.
     I testi sono nati tra il gennaio e il marzo del 2019, quando chi li ha scritti, appena ventitreenne, come quando ne aveva quindici, e come ora (a una relativamente breve distanza di tempo dalla loro stesura), aveva tanta urgenza di esprimersi, e probabilmente tanta presunzione.
     L'amore, o la speranza in un amore, l'odio, la guerra, la tristezza, la rassegnazione, la noia, la musica, e altre futilità abitano, di prepotenza, le seguenti pagine, impregnate di inchiostro effimero, eppure "bastardamente" promettente.

lunedì 13 settembre 2021

Qualche riga (Poesia)


Scrivo qualche riga,

di getto, come viene,

di certo non mi conviene,

ma meglio questo rischio

che respirare il terrore 

e farmelo persino andare bene:

che escan le parole come da diga, 

che pulsino di rivolta le vene,

e ch'io mi salvi con colpi di rene

dal sistema, del quale, sfacciato, mi infischio,

perché ammalarmi di terrore,

no, non me lo farò mai andare bene.


E se questo comportare dovesse l'esilio,

lo accetterò, con il rischio che io muoia,

e purché non finisca estinta in me la gioia 

di ciò che mi è più caro, terrò botta,

ammettendo l'errore, il possibile torto,

ma di dittature non avrò mai voglia:

di nessun dio invoco l'ausilio,

non aspetto alcun miracolo alla soglia

della mia esistenza solinga e spoglia,

ma mai che sia motivo questa mia lotta

per dire che io sia soldato insorto,

perché al soldo potrei solo controvoglia.


Sotto cieli sconfinati, in terra totalitaria,

sarò costretto, semmai volessi, alla paura

ogniqualvolta dovessi uscire all'avventura,

cercando una libera uscita non ordinata,

perché vero evaso sarò per il grande occhio,

qualora non vaccinato lasciassi le mie mura:

ben rinuncerei allora alla vostra aria,

e dell'intimo senso di morte non avrei cura,

perché è meglio una reclusione dura e pura 

che un'agonia di massa, libertà condizionata,

e saltellando infante, da novello Pinocchio,

per la mia stanza, rifiuterò l'abiura.


Dicevo queste parole esser di getto,

in realtà sono in rima, lo richiede il tema,

perché non sia delirio, ma fermo anatema

a chi un giorno piangerà per la sentenza,

che arriverà sicura per i crimini di oggi,

fugace giorno di gloria per sedicenti eroi:

pseudofilantropi, democratici, il mio rispetto

avete per la vostra astuzia, vostro emblema,

perché infine davanti a una corte suprema,

al contrario di un tempo, tradirà l'indecenza,

e ne potrete fare solo tristi e biechi sfoggi,

sarete perfetti nel vostro ruolo di hoi-polloi.


P. G. Boccacci

domenica 25 luglio 2021

Scott Walker - Scott 4 (1969) Recensione di P. G. Boccacci

 

Link alla recensione sul sito Debaser: https://www.debaser.it/scott-walker/scott-4/recensione-paolofreddie

     Molti di coloro che amano Scott Walker devono la loro affezione al suo periodo più “dark”, claustrofobico, giudizio, o meglio atteggiamento e propensione, che mi può trovare abbastanza d’accordo, dal momento che “The Drift” (2006) può ben dirsi l’album maggiormente compiuto a livello di atmosfere e ritmi, sapientemente ridotti all’osso, secondo un minimalismo che dà forza alla voce e alle parole dell’artista statunitense, ribattezzatosi britannico.
     Tuttavia, trovo che una mera, seppur verosimile, distinzione tra un “primo” e un “secondo” Walker rischi di generare una fuorviante narrazione, che vorrebbe un artista limitato al pop prima, e votato alla sperimentazione poi. In realtà, tutta la sua carriera, a un primo, a un secondo, a un decimo ascolto (per i die-hard), emerge come un’innegabile manifestazione di istanze avanguardistiche.
     Dai primi quattro LP come autore solista (si escludono, quindi, i lavori con i Walker Brothers, band di fratelli fittizi, in cui prevalgono le cover), segnalati, progressivamente, con un numero, ma di fatto omonimi, agli ultimi progetti con funzione di OST (“The Childhood of a Leader”, 2016, e “Vox Lux”, 2018), Noel Scott Engel immerge i propri contenuti in una soluzione eterogenea, che contenga elementi accessibili, da un lato, e evasivi, ostici dall’altro, in più o meno egual misura. Se, inizialmente, gli uni prevalgono sugli altri, dando l’impressione di avere a che fare con prodotti confezionati per essere innanzitutto consumati, lo si deve a un periodo storico in cui la contaminazione tra sinfonico e pop, esemplificata dalle innovazioni tecniche di un Phil Spector, viene portata sul mercato per fare sensazione, attraverso levigate ibridazioni tra musica leggera e colta. Inoltre, Walker, ben inserito nel contesto di riferimento, si ispira molto al musical di Broadway come, soprattutto, alla canzone francese di Jacques Brel e Leo Ferré, due eminenti chanteurs che fondono autorialità a un formato buono per il mercato. Un altro compositore importante in tal merito, perlomeno come scrittore di melodie, è Burt Bacharach.

     Già a partire dal capitolo finale della tetralogia degli “Scott”, “4”, che è l’oggetto della presente recensione, le intenzioni dell’artista si fanno più ardimentose, il bagaglio culturale del Walker uomo si arricchisce, gli strumenti a disposizione, a livello concettuale, aumentano. La maturazione artistica si concretizza in maniera sostanziale a questo punto del percorso: è il 1969, e il 26enne di Hamilton, Ohio, di stanza a Londra, registra negli Olympic Studios della capitale inglese le tracce che andranno a formare il nuovo LP completamente autografo. Niente più cover, solo brani scritti di proprio pugno. Decide di firmare il tutto con il suo nome di battesimo, Scott Engel, ed è questa la motivazione principale che molti vorranno addurre come all’origine del sorprendente insuccesso commerciale del cantante, prima di allora costantemente baciato dalla fortuna mediatica: “Scott 4” non scala le classifiche di vendita, rimane per qualche tempo in basso, e poi ne viene estromesso del tutto.
     Che a influire maggiormente sul flop siano ragioni formali (nome in copertina, e paternità del materiale) o elementi sonori/lirici più complessi, poco importa. Tutto di “Scott 4” la dice lunga sulla sincerità e sull’intelligenza creativa del suo autore. Capolavoro senza “se” e senza “ma”, contrariamente alle precedenti uscite, che, seppur presentino del materiale artisticamente dignitoso e spesso emozionante, difettano di coerenza concettuale e di un certo peso autoriale e melodico, “4” mette insieme, in maniera perfetta, strumentazione appartenente alla tradizione orchestrale, strumenti acustici e/o riconducibili al rock, e assetto ritmico.
     Il sound continua a essere barocco, ma di un barocco spogliato di molti dei suoi orpelli: a tratti l’effetto fiabesco, sopravvissuto al lavoro di sottrazione, si inserisce in alcuni solchi, e fa sorridere, ma i vari pezzi del puzzle strumentale, più sovente, si incastrano alchemicamente, creando un effetto straniante, e si sposano, senza stonature, al “crooning” d’altri mondi di Engel/Walker. Dei dieci pezzi che vanno a comporre la scaletta dell’album, almeno tre-quattro sono intoccabili, altri sono sofisticati e impeccabili a livello melodico, e i pochi restanti, probabilmente meno ispirati, sono comunque apprezzabili.

     Le prime quattro composizioni, a mio avviso, sono i tasselli di un ideale medley: “The Seventh Seal”, racconto sintetico, in forma di canzone, della trama dell’omonimo film di Ingmar Bergman, di dodici anni prima, e bozzetto sonoro aperto da trombe morriconiane che fanno pensare al coevo Fabrizio De André (quello di “Tutti morimmo a stento”, edito l’anno precedente); “On Your Own Again”, nel quale Scott dipinge emozioni contrastanti nell’arco di un breve e intenso minuto (e quarantotto secondi); “The World’s Strongest Man”, tenera canzone d’amore, e grande manifestazione di umiltà di un uomo che si piega sotto il peso del proprio sentimento (“And didn’t you know that I’m not the world’s strongest man?/When it comes to you and your world, I’m lost”), che si conclude con il primo exemplum, dall’inizio dell’LP, delle tante improvvisazioni vocali in scat, che sono un fiore all’occhiello dell’artista; “Angels of Ashes”, una vera e propria poesia messa in musica, un concentrato di suggestioni che si sviluppano, strofa per strofa, come un canto aedico, con parole cariche di dolcezza, spiritualità e, pure, di sottile ironia. A chiudere il lato A del vinile, “Boy Child”, composizione dall’afflato sinfonico, in chiave occidentale, che si unisce a rintocchi orientali: solo in questo frammento il crooning può risultare stucchevole, non combinandosi efficacemente con gli umori dell’orchestra.
     Lo stesso discorso fatto per il primo lato vale per il secondo. Anche qui, i primi quattromovimenti” raccontano un’unica piccola grande storia su un piano di panorami concettuali: “Hero of the War”, piacevole divertissement antimilitarista (sembra un ossimoro!), che si regge su una chitarra e su delle percussioni che imitano un incalzante galoppo; “The Old Man’s Back Again”, canzone monumentale, che presenta una linea di basso (fornita da Herbie Flowers, lo stesso dietro a quelle che fanno da fondamento alla “Space Oddity” di Bowie, grande estimatore di Walker, e alla “Walk on the Wild Sidereediana) tra le più poderose e vibranti che si possano mai ascoltare, un ritornello da amplesso (merito dell’ugola di Walker, ma anche del coro in stile gregoriano a corredo) nonché un testo di un’intensità inaudita, con sottotitolo “Dedicated to the Neo-Stalinist Regime”, in riferimento all’Invasione del Patto di Varsavia della Cecoslovacchia (versi come “And Andrei V. he cries, with eyes that ring like chimes/His anti-worlds go spinning through his head/He burns them in his dreams/For half-awake, they may as well be dead”, ma soprattutto strofe come “I see a soldier, he’s standing in the rain/For him there’s no old man to walk behind/Devoured by his pain/Bewildered by the faces who pass him by/He’d like another name, the one he’s got’s a curse/These people cried/Why can’t they understand?/His mother called him Ivan, then she died”, non possono lasciare indifferente chiunque abbia un’anima); “Duchess”, miglior momento sinfonico insieme a “On Your Own Again” e “Angels of Angels”, oltre che episodio eminentemente “dylaniano” (del Dylan di “Blonde on Blonde”, in particolare di “Sad-Eyed Lady of the Lowlands”) a livello lirico; “Get Behind Me”, con chitarra elettrica, dal suono acido, a fare da protagonista nel ritornello, da cantare a squarciagola. La chiosa dell’intero LP – della durata di appena trentadue minuti, vissuti però con partecipazione emotiva totale –, ovvero “Rhymes of Goodbye”, è un ottimo congedo, anche se lezioso ed enfatico.
     Tre sono i direttori d’orchestra coinvolti nella realizzazione degli arrangiamenti: Peter Knight, Wally Stott (alias Angela Morley, nome che adotterà nel 1970, a seguito del cambio di sesso) e Keith Roberts. Knight, il quale erige il suo mausoleo sonoro in “The Seventh Seal”, “Angels of Ashes”, “Hero of the War” e “The Old Man’s Back Again”, è un collaboratore fisso di Walker, come anche Stott/Morley, ed è un pezzo da novanta ancor prima della realizzazione di “4”, avendo provveduto al tessuto orchestrale di “Days of Future Passed” dei Moody Blues, che, unitamente al suo status di disco anticipatore del prog (novembre 1967), viene considerato uno dei primi concept album della storia. Roberts, d’altro canto, può vantare la sua presenza nell’omonimo LP dei Gun, band psichedelica di culto, come direttore musicale.

     Scott 4”, uscendo nel novembre 1969, rappresenta il culmine di una riuscitissima parabola generazionale, identificabile con un determinato zeitgeist di matrice anglo-americana, che comprende – solo apparentemente con una certa libertà interpretativa – voci e autori come lo stesso Walker, ma anche Laura Nyro (“Eli and the Thirteenth Confession”, 1968), e ancora prima Van Dyke Parks (“Song Cycle”, 1967) – tutti quanti accomunati da una voluta ricerca di simbiosi tra cantato istrionico, d’effetto preziosamente teatrale, strutture e melodie tra sinfonismo classicista e pop, e autorialità.

Voto: 8,5/10

sabato 22 maggio 2021

Prima che sia troppo tardi

Libero da speranza, e ogni buco nella miniera del sorriso di un volto dozzinale, cercando l'uno, nel bel mezzo di un sole-ggiato mattino da avvoltoio a NY, quando i segni sono tenuti nascosti come celassero un significato in una chiave d'asino, collegato come un link per una porta, una mente per una cripta, un corpo affannosamente racchiuso sopra tutti ... Free of hope, and every hole in the mine of a cheap face smile, going for the one, in the midst of a sun- -NY vulture morning when the signs are kept hidden as if there were a meaning in a don-key, jacked in as a link for a door, a mind for a vault, a body frantically enclosed above all ... E il desider-are si sta facendo urgente, cercando l'uno, in mezzo alle trappole e nello spazio tra la tua stanza e la mia: cos'è nostro? Solo le nostre voci, solo i nostri silenzi: soltanto le nostre vite. And yearn-ing is getting higher, going for the one, amongst the traps and in between your room and mine: what is ours? Just our voices, just our silences: our lives only. E quando moriremo, il cielo si farà sicuramente una gran risata, con le sue nuvole e il vento e la pioggia, quindi che questo desider-are si oda, che questo desider-are rimanga ir-redento, ir-risolto, in-soddisfatto. And when we die, the sky will definitely laugh its lungs out, with its clouds and wind and rain, so let this yearn-ing be heard, let this yearn-ing be un-redeemed, un-solved, un-satisfied. Guardami: non sono umano, la tua vulva non è stata creata per me, e sono destinato a non avere figli, ma non drammatizziamo, cerca l'uno, cerca l'uno, l'unico e solo, quello prima ... Look at me: I'm not human, your vulva was not made for me, and I'm destined not to have children, but let's not dramatize, go for the one, go for the one, for the one and only one before ... che sia troppo tardi. it gets too late. P. G. B.