Link alla recensione sul sito Debaser: https://www.debaser.it/scott-walker/scott-4/recensione-paolofreddie
Molti di
coloro che amano Scott Walker devono la loro affezione al suo periodo
più “dark”, claustrofobico, giudizio, o meglio atteggiamento e
propensione, che mi può trovare abbastanza d’accordo, dal momento che “The
Drift” (2006) può ben dirsi l’album maggiormente compiuto a livello
di atmosfere e ritmi, sapientemente ridotti all’osso,
secondo un minimalismo che dà forza alla voce e alle
parole dell’artista statunitense, ribattezzatosi britannico.
Tuttavia, trovo che una mera, seppur
verosimile, distinzione tra un “primo” e un “secondo” Walker
rischi di generare una fuorviante narrazione, che vorrebbe un artista limitato
al pop prima, e votato alla sperimentazione poi. In realtà, tutta
la sua carriera, a un primo, a un secondo, a un decimo ascolto (per i
die-hard), emerge come un’innegabile manifestazione di istanze
avanguardistiche.
Dai primi quattro LP come autore
solista (si escludono, quindi, i lavori con i Walker Brothers, band
di fratelli fittizi, in cui prevalgono le cover), segnalati,
progressivamente, con un numero, ma di fatto omonimi, agli ultimi
progetti con funzione di OST (“The Childhood of a Leader”, 2016,
e “Vox Lux”, 2018), Noel Scott Engel immerge i propri
contenuti in una soluzione eterogenea, che contenga elementi accessibili,
da un lato, e evasivi, ostici dall’altro, in più o meno egual misura. Se,
inizialmente, gli uni prevalgono sugli altri, dando l’impressione di avere a
che fare con prodotti confezionati per essere innanzitutto consumati, lo si
deve a un periodo storico in cui la contaminazione tra sinfonico
e pop, esemplificata dalle innovazioni tecniche di un Phil
Spector, viene portata sul mercato per fare sensazione, attraverso levigate
ibridazioni tra musica leggera e colta. Inoltre, Walker, ben
inserito nel contesto di riferimento, si ispira molto al musical di Broadway
come, soprattutto, alla canzone francese di Jacques Brel e Leo
Ferré, due eminenti chanteurs che fondono autorialità a un formato
buono per il mercato. Un altro compositore importante in tal merito, perlomeno
come scrittore di melodie, è Burt Bacharach.
Già a
partire dal capitolo finale della tetralogia degli “Scott”, “4”,
che è l’oggetto della presente recensione, le intenzioni dell’artista si fanno
più ardimentose, il bagaglio culturale del Walker uomo si arricchisce, gli
strumenti a disposizione, a livello concettuale, aumentano. La maturazione
artistica si concretizza in maniera sostanziale a questo punto del
percorso: è il 1969, e il 26enne di Hamilton, Ohio,
di stanza a Londra, registra negli Olympic Studios della capitale
inglese le tracce che andranno a formare il nuovo LP completamente autografo.
Niente più cover, solo brani scritti di proprio pugno. Decide di firmare il
tutto con il suo nome di battesimo, Scott Engel, ed è questa la
motivazione principale che molti vorranno addurre come all’origine del
sorprendente insuccesso commerciale del cantante, prima di allora
costantemente baciato dalla fortuna mediatica: “Scott 4” non scala le
classifiche di vendita, rimane per qualche tempo in basso, e poi ne viene
estromesso del tutto.
Che a influire maggiormente sul flop
siano ragioni formali (nome in copertina, e paternità del materiale) o elementi
sonori/lirici più complessi, poco importa. Tutto di “Scott 4”
la dice lunga sulla sincerità e sull’intelligenza creativa del
suo autore. Capolavoro senza “se” e senza “ma”, contrariamente alle
precedenti uscite, che, seppur presentino del materiale artisticamente
dignitoso e spesso emozionante, difettano di coerenza concettuale e di un certo
peso autoriale e melodico, “4” mette insieme, in maniera perfetta,
strumentazione appartenente alla tradizione orchestrale, strumenti
acustici e/o riconducibili al rock, e assetto ritmico.
Il sound continua a essere barocco,
ma di un barocco spogliato di molti dei suoi orpelli: a tratti l’effetto
fiabesco, sopravvissuto al lavoro di sottrazione, si inserisce in alcuni
solchi, e fa sorridere, ma i vari pezzi del puzzle strumentale, più
sovente, si incastrano alchemicamente, creando un effetto straniante, e
si sposano, senza stonature, al “crooning” d’altri mondi di
Engel/Walker. Dei dieci pezzi che vanno a comporre la scaletta
dell’album, almeno tre-quattro sono intoccabili, altri sono
sofisticati e impeccabili a livello melodico, e i pochi restanti, probabilmente
meno ispirati, sono comunque apprezzabili.
Le prime
quattro composizioni, a mio avviso, sono i tasselli di un ideale medley:
“The Seventh Seal”, racconto sintetico, in forma di canzone, della trama
dell’omonimo film di Ingmar Bergman, di dodici anni prima, e
bozzetto sonoro aperto da trombe morriconiane che fanno pensare al coevo
Fabrizio De André (quello di “Tutti morimmo a stento”, edito l’anno
precedente); “On Your Own Again”, nel quale Scott dipinge emozioni
contrastanti nell’arco di un breve e intenso minuto (e quarantotto
secondi); “The World’s Strongest Man”, tenera canzone d’amore,
e grande manifestazione di umiltà di un uomo che si piega sotto il peso
del proprio sentimento (“And didn’t you know that I’m not the world’s
strongest man?/When it comes to you and your world, I’m lost”), che si
conclude con il primo exemplum, dall’inizio dell’LP, delle tante
improvvisazioni vocali in scat, che sono un fiore all’occhiello
dell’artista; “Angels of Ashes”, una vera e propria poesia messa in
musica, un concentrato di suggestioni che si sviluppano, strofa per
strofa, come un canto aedico, con parole cariche di dolcezza, spiritualità
e, pure, di sottile ironia. A chiudere il lato A del vinile, “Boy
Child”, composizione dall’afflato sinfonico, in chiave occidentale,
che si unisce a rintocchi orientali: solo in questo frammento il
crooning può risultare stucchevole, non combinandosi efficacemente con
gli umori dell’orchestra.
Lo stesso discorso fatto per il
primo lato vale per il secondo. Anche qui, i primi quattro
“movimenti” raccontano un’unica piccola grande storia su un piano di
panorami concettuali: “Hero of the War”, piacevole divertissement
antimilitarista (sembra un ossimoro!), che si regge su una chitarra
e su delle percussioni che imitano un incalzante galoppo; “The
Old Man’s Back Again”, canzone monumentale, che presenta una linea di
basso (fornita da Herbie Flowers, lo stesso dietro a quelle che
fanno da fondamento alla “Space Oddity” di Bowie, grande
estimatore di Walker, e alla “Walk on the Wild Side” reediana) tra
le più poderose e vibranti che si possano mai ascoltare, un ritornello da
amplesso (merito dell’ugola di Walker, ma anche del coro in stile gregoriano
a corredo) nonché un testo di un’intensità inaudita, con sottotitolo “Dedicated
to the Neo-Stalinist Regime”, in riferimento all’Invasione del Patto di
Varsavia della Cecoslovacchia (versi come “And Andrei V. he cries, with
eyes that ring like chimes/His anti-worlds go spinning through his head/He
burns them in his dreams/For half-awake, they may as well be dead”, ma
soprattutto strofe come “I see a soldier, he’s standing in the rain/For him
there’s no old man to walk behind/Devoured by his pain/Bewildered by the faces
who pass him by/He’d like another name, the one he’s got’s a curse/These people
cried/Why can’t they understand?/His mother called him Ivan, then she died”,
non possono lasciare indifferente chiunque abbia un’anima); “Duchess”, miglior
momento sinfonico insieme a “On Your Own Again” e “Angels of
Angels”, oltre che episodio eminentemente “dylaniano” (del Dylan
di “Blonde on Blonde”, in particolare di “Sad-Eyed Lady of the
Lowlands”) a livello lirico; “Get Behind Me”, con chitarra
elettrica, dal suono acido, a fare da protagonista nel ritornello,
da cantare a squarciagola. La chiosa dell’intero LP – della durata di appena trentadue
minuti, vissuti però con partecipazione emotiva totale –, ovvero “Rhymes
of Goodbye”, è un ottimo congedo, anche se lezioso ed enfatico.
Tre sono i direttori
d’orchestra coinvolti nella realizzazione degli arrangiamenti: Peter
Knight, Wally Stott (alias Angela Morley, nome che adotterà
nel 1970, a seguito del cambio di sesso) e Keith Roberts. Knight,
il quale erige il suo mausoleo sonoro in “The Seventh Seal”, “Angels
of Ashes”, “Hero of the War” e “The Old Man’s Back Again”, è un
collaboratore fisso di Walker, come anche Stott/Morley, ed è un pezzo da
novanta ancor prima della realizzazione di “4”, avendo provveduto al tessuto
orchestrale di “Days of Future Passed” dei Moody Blues, che,
unitamente al suo status di disco anticipatore del prog (novembre
1967), viene considerato uno dei primi concept album della storia. Roberts,
d’altro canto, può vantare la sua presenza nell’omonimo LP dei Gun,
band psichedelica di culto, come direttore musicale.
“Scott 4”,
uscendo nel novembre 1969, rappresenta il culmine di una
riuscitissima parabola generazionale, identificabile con un determinato zeitgeist
di matrice anglo-americana, che comprende – solo apparentemente con una
certa libertà interpretativa – voci e autori come lo stesso Walker, ma anche Laura
Nyro (“Eli and the Thirteenth Confession”, 1968), e ancora
prima Van Dyke Parks (“Song Cycle”, 1967) – tutti quanti
accomunati da una voluta ricerca di simbiosi tra cantato istrionico,
d’effetto preziosamente teatrale, strutture e melodie tra sinfonismo
classicista e pop, e autorialità.
Voto: 8,5/10