UNA recensione su "KRONOMAKIA"
Spettacolo di Micrologus/Daniele Sepe
di Paolo Gabriel Boccacci
Spettacolo di Micrologus/Daniele Sepe
di Paolo Gabriel Boccacci
Il 28 luglio scorso, il festival
UniversoAssisi si è concluso, alle 22:00, con uno show all’insegna della
fusione tra mondi musicali diversi: jazz e rock sposati, più o meno
sinergicamente, alle ballate medievali (ma non solo!), lette, a tal guisa, in
chiave moderna.
Causa pioggia, lo spettacolo, intitolato “KRONOMAKIA” (“battaglia del tempo”), tenuto dai Micrologus e dal sassofonista Daniele Sepe, è stato spostato dalla location prevista, della Basilica Superiore di S. Francesco, al Teatro Lyrick (interno).
L’incontro/scontro volutamente evocato, cercato in maniera autoironica, tra generi apparentemente tanto distanti, a livello temporale, ha, invece, dimostrato quanto l’idea, che si ha di entrambi, sia riduttiva, se non erronea: la concezione di musica popolare e, congiuntamente, di musica colta è stata messa in discussione, il divario è risultato, fortunatamente, poco convincente, perché la canzone medievale, tanto quanto il jazz – effuso da Daniele Sepe, che, in questo senso, non ha fatto davvero prigionieri –, ha vissuto con coerenza, grazie agli strumenti, resi dinamici dall’ensemble assisano, la propria contraddizione, proprio attraverso la simbiosi.
Si sono alternate tarantelle, tammuriate, saltarelli e danze medievali, ma c’è stato spazio anche per due cover di brani illustri dell’immaginario pop-rock degli ultimi cinquant’anni (o poco più): “Stayin’ Alive” dei Bee Gees e “Norwegian Wood (This Bird Has Flown)” dei Quattro di Liverpool.
Causa pioggia, lo spettacolo, intitolato “KRONOMAKIA” (“battaglia del tempo”), tenuto dai Micrologus e dal sassofonista Daniele Sepe, è stato spostato dalla location prevista, della Basilica Superiore di S. Francesco, al Teatro Lyrick (interno).
L’incontro/scontro volutamente evocato, cercato in maniera autoironica, tra generi apparentemente tanto distanti, a livello temporale, ha, invece, dimostrato quanto l’idea, che si ha di entrambi, sia riduttiva, se non erronea: la concezione di musica popolare e, congiuntamente, di musica colta è stata messa in discussione, il divario è risultato, fortunatamente, poco convincente, perché la canzone medievale, tanto quanto il jazz – effuso da Daniele Sepe, che, in questo senso, non ha fatto davvero prigionieri –, ha vissuto con coerenza, grazie agli strumenti, resi dinamici dall’ensemble assisano, la propria contraddizione, proprio attraverso la simbiosi.
Si sono alternate tarantelle, tammuriate, saltarelli e danze medievali, ma c’è stato spazio anche per due cover di brani illustri dell’immaginario pop-rock degli ultimi cinquant’anni (o poco più): “Stayin’ Alive” dei Bee Gees e “Norwegian Wood (This Bird Has Flown)” dei Quattro di Liverpool.
Ma ecco la parte dolente: laddove il
repertorio di stampo medievale è stato sapientemente valorizzato dall’ensemble,
supportato dall’ugola di Patrizia Bovi, che ha, nel bene o nel male, confermato
la sua spiccata tecnica vocale, le due cover hanno lasciato un po’ al caso,
soprattutto quella di “Stayin’ Alive”, guastata da una dizione, sempre della Bovi,
in questo caso vaneggiante: a chi scrive è sembrato che qualcuno stesse
cantando, il più memorabile dei pezzi disco, in un giapponese caricaturale. E si trattava di un riadattamento, del classico anglofono, in latino!
Relativamente alla cantante/arpista di cui sopra, sicuramente dotata di un timbro all’altezza delle composizioni medievali, va detto che la sua esibizione, seppur impeccabile (finché si è tenuta fuori dal Novecento pop), è risultata piuttosto fredda, svuotata di quel carisma che, se posseduto da un artista, e da questi ben calibrato, risulta essere la chiave di volta durante un’esperienza dal vivo.
Relativamente alla cantante/arpista di cui sopra, sicuramente dotata di un timbro all’altezza delle composizioni medievali, va detto che la sua esibizione, seppur impeccabile (finché si è tenuta fuori dal Novecento pop), è risultata piuttosto fredda, svuotata di quel carisma che, se posseduto da un artista, e da questi ben calibrato, risulta essere la chiave di volta durante un’esperienza dal vivo.
Se gli strumentisti hanno saputo
rapire, in diversi frangenti, l’uditorio, attraverso dei suggestivi voli
sonori, la frontwoman della serata ha, essenzialmente, quod valde dolendum,
dato l’impressione, quantomeno a chi scrive, di saper fare il “compito", e
nulla più.
Da segnalare, come fattore positivo, la sezione ritmica di Davide Afzal (basso), di Paolo Forlini (batteria) e di Enea Sorini (voce, salterio e percussioni), senza nulla togliere ai restanti musicisti.
Un concerto, durato quasi due ore, che ha saputo dare molto attraverso il rifiuto di una seriosità “classicista”, alla quale si è preferito un taglio decisamente ironico. Musicisti in forma, vocalist anche, ma – quest’ultima – poco comunicativa. L’arpa ha compensato.
Da segnalare, come fattore positivo, la sezione ritmica di Davide Afzal (basso), di Paolo Forlini (batteria) e di Enea Sorini (voce, salterio e percussioni), senza nulla togliere ai restanti musicisti.
Un concerto, durato quasi due ore, che ha saputo dare molto attraverso il rifiuto di una seriosità “classicista”, alla quale si è preferito un taglio decisamente ironico. Musicisti in forma, vocalist anche, ma – quest’ultima – poco comunicativa. L’arpa ha compensato.